Il certificato medico rilasciato da un medico straniero all'estero privo di "apostille"

In tema di licenziamento per assenza ingiustificata del lavoratore il certificato medici redatto all'estero da un medico straniero privo della "apostille", prevista dalla Convenzione Aja del 5 Ottobre 1961 non ha valore giuridico in Italia

29 DIC 2023 · Tempo di lettura: min.
Il certificato medico rilasciato da un medico straniero all'estero privo di "apostille"

La Corte di Cassazione., sez. lav., n. 24697/22 afferma che, in tema di licenziamento per assenza ingiustificata del lavoratore, il certificato medico redatto all'estero da un medico straniero, privo della "apostille", ossia della formalità richiesta dalla Convenzione dell'Aja del 5 ottobre 1961 (ratificata e resa esecutiva con la legge n. 1253/1966), ovvero privo, in alternativa, della legalizzazione a cura della locale Rappresentanza diplomatica o consolare italiana, non ha valore giuridico in Italia, senza che assuma rilievo la eventuale traduzione in italiano, ed è, pertanto, inidoneo a giustificare l'assenza dal lavoro, non essendo certificata né la provenienza dell'atto da un soggetto abilitato allo svolgimento della professione sanitaria, né la diagnosi e la prognosi di malattia come attestate da un soggetto competente.

In caso di assenza ingiustificata grava sul datore di lavoro l'onere di provare la condotta che ha determinato l'irrogazione della sanzione disciplinare e, quindi, di provare il fatto nella sua oggettività, mentre grava sul lavoratore l'onere di provare gli elementi che possano giustificarlo.

La Corte d'Appello di Firenze, riformando la decisione di primo grado, dichiarava illegittimo e annullava il licenziamento intimato ad una lavoratrice e condannava la società datrice di lavoro a «reintegrare la dipendente nel posto di lavoro e a corrisponderle, a titolo di risarcimento del danno, una indennità pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto maturata dal licenziamento alla effettiva reintegrazione, oltre accessori e regolarizzazione contributiva previdenziale ed assicurativa».

Nella fattispecie alla ricorrente, dipendente dalla convenuta «con qualifica di operaia addetta alle pulizie (II livello Ccnl) (...) era stata contestata l'assenza ingiustificata dal 1° settembre al 19 ottobre 2016 ed era stata, per questo, licenziata per motivi disciplinari senza preavviso», essendole stato imputato «di non avere avvisato i suoi superiori e di non avere giustificato validamente la sua assenza».

La lavoratrice, nel periodo in contestazione, si trovava all'estero e «a giustificazione della propria assenza aveva inviato al datore di lavoro due certificati medici, debitamente tradotti in italiano, ma privi della "apostilla", ossia della formalità richiesta dalla Convenzione dell'Aja del 5 ottobre 1961 ai fini di attestare la veridicità della firma sull'atto, il titolo in virtù del quale l'atto era stato firmato e l'autenticità del sigillo o del bollo».

Secondo la Corte d'Appello, però, la prova doveva comunque essere considerata valida e sufficiente, in quanto «i certificati medici rientravano tra gli atti pubblici per i quali, ai sensi della Convenzione dell'Aja del 1961, era esclusa la necessità della legalizzazione», inoltre «nel caso in esame si verteva in una ipotesi di assenza dal lavoro non regolarmente giustificata ma non del tutta priva di giustificazione», e «la mancata legalizzazione dei certificati medici non poteva essere imputata a negligenza della lavoratrice in quanto la Convenzione dell'Aja era stata recepita» dallo Stato estero in questione «solo pochi giorni prima della malattia in questione».

La datrice di lavoro proponeva quindi ricorso per Cassazione che ha quindi cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla stessa Corte d'Appello, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Per quanto concerne in primo luogo il valore probatorio attributo dalla Corte fiorentina ai certificati medici benché privi di "apostille", la Cassazione ha ritenuto errata tale decisione, ricordando di avere già in altra occasione sancito che «In base alla Convenzione sull'abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri, adottata e ratificata dall'Italia con legge n. 1253 del 1966, la dispensa dalla legalizzazione è condizionata al rilascio, da parte dell'Autorità designata dallo Stato di formazione dell'atto, di apposita "apostille", da apporre sull'atto stesso, o su un suo foglio di allungamento, secondo il modello allegato alla Convenzione», e pertanto «in assenza di tale forma legale di autenticità del documento, il Giudice italiano non può attribuire efficacia validante a mere certificazioni provenienti da un pubblico ufficiale di uno Stato estero, pur aderente alla Convenzione».

La documentazione prodotta non poteva di conseguenza essere considerata «idonea a giustificare l'assenza perché non è certificata tanto la provenienza dell'atto da un soggetto abilitato allo svolgimento della professione sanitaria, quanto la diagnosi e la prognosi di malattia come attestate da un soggetto competente».

Prosegue la Cassazione affermando che sul punto la sentenza impugnata «è errata in diritto anche nella parte in cui si afferma che al datore di lavoro non sarebbe stato precluso di verificare, anche successivamente, la legittimità dell'assenza. In caso di assenza ingiustificata, infatti, al datore di lavoro grava l'onere di provare la condotta che ha determinato l'irrogazione della sanzione disciplinare e, quindi, di provare il fatto nella sua oggettività, mentre grava sul lavoratore l'onere di provare gli elementi che possano giustificarlo».

Sulla base di queste, e di altre, considerazioni la causa è stata quindi rinviata in secondo grado per un nuovo esame, alla luce dei principi enunciati, sia del merito, sia dell'eventuale valore probatorio da attribuirsi alle altre risultanze istruttorie acquisite.

Per quanto concerne la necessità dell'"apostille", per attribuire efficacia probatoria al certificato medico redatto all'estero, la S.C. richiama quanto già affermato, con riferimento però alla procura alle liti, da Cass. civ., sez. I, 11 giugno 2018, n. 15073.

In tema di procura alle liti rilasciata all'estero, la nullità della stessa derivante dal mancato rilascio di apposita "apostille", da parte dell'Autorità designata dallo Stato di formazione dell'atto, non è sanata dalla circostanza che detto Stato (nella specie, la Croazia) sia entrato a far parte dell'Unione europea nelle more del giudizio; infatti, la procura alle liti utilizzata in un giudizio che si svolge in Italia, anche se rilasciata all'estero, è disciplinata, ai sensi dell'art. 12 della legge n. 218/1995, dalla legge processuale italiana, la quale ha carattere territoriale e non si applica retroattivamente agli atti anteriormente compiuti, i cui effetti restano regolati, secondo il fondamentale principio del tempus regit actum, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere.

Quanto poi alla ripartizione dell'onere della prova tra lavoratore e datore di lavoro in caso di sanzione per assenza ingiustificata, ferma restando la ripartizione dell'onere della prova tra datore di lavoro e lavoratore, è pure necessaria «una verifica da parte del Giudice di merito circa la sussistenza di elementi di grave inadempienza e colpa del prestatore di lavoro, immediatamente e direttamente incidenti sull'elemento della fiducia, e tali fornire giustificazione al licenziamento, in base a criteri di proporzionalità e adeguatezza della sanzione

Incombe «comunque sul lavoratore l'onere di dimostrare la sussistenza della malattia» e «sul datore di lavoro quello di fornire la prova contraria; pertanto, qualora il prestatore di lavoro abbia comunicato e documentato, con apposito certificato medico, il proprio stato morboso, l'onere probatorio del datore di lavoro non può ritenersi assolto dimostrando unicamente la circostanza della irreperibilità del dipendente alla visita domiciliare di controllo, dovendo egli provare altresì l'incompatibilità dell'allontanamento dal domicilio con la natura e la gravità della malattia

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