Prova del tradimento: spiare la chat del partner è reato

È legale qualsiasi metodo per raccogliere le prove di un adulterio?

8 AGO 2019 · Tempo di lettura: min.
Prova del tradimento: spiare la chat del partner è reato

Durante un processo, per poter addebitare al coniuge la separazione, bisogna apportare le prove, ad esempio, dell’adulterio. È legale qualsiasi metodo per raccogliere queste prove? Non sempre, ovviamente. Cosa succede, ad esempio, se uno dei coniugi spia il profilo Skype di sua moglie per raccogliere prove? Potrebbe incorrere nel reato ai sensi dell’articolo 615-ter c.p.:

“Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni”, [primo comma].

In più, rischia di incorrere anche nel reato determinato dall’articolo 616 c.p.:

“Chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prenderne o di farne da altri prender cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta, ovvero, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a un anno o con la multa da trenta euro a cinquecentosedici euro”, [primo comma].

Proprio su questa tematica si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 34141/2019.

La vicenda

Nei confronti di un uomo veniva esercitata l’azione penale per il reato di accesso abusivo (articolo 615-ter c.p.) al profilo Skype di sua moglie, e per la violazione di corrispondenza (articolo 616 c.p.) “per aver preso cognizione delle comunicazioni “in chat” avvenute sul profilo Skype della stessa R con un terzo utente ed averle successivamente rivelate, senza giusta causa, mediante deposito della stampa delle stesse nel procedimento civile di separazione […]”. Nonostante ciò, il Tribunale di Monza prima e la Corte di appello di Milano poi, avevano sancito che il reato non sussiste.

La donna, invece, aveva fatto ricorso presso la Corte di Cassazione. Fra i motivi apportati, uno dei più importanti riguardava l’erronea applicazione dell’articolo 615-ter c.p., in quanto la norma punisce “anche il mantenimento nello stesso contro la volontà del titolare, sicché il fatto che, in ipotesi, il computer della ricorrente fosse già aperto su Skype e che fosse collocato nella stanza da pranzo (ossia in luogo comune) costituiscono circostanze del tutto inconferenti, essendo rilevante solo il dato che l’imputato si sia pacificamente trattenuto all’interno di un sistema telematico protetto da misure di sicurezza, navigando nel profilo Skype della ricorrente, leggendo e stampando pagine e pagine di conversazioni, pur sapendo di non essere autorizzato a farlo ed anzi nella piena consapevolezza della contraria volontà della moglie”.

La decisione della Corte di Cassazione

I giudici della Corte di Cassazione hanno deciso di accogliere i motivi elencati dalla donna. Gli ermellini, infatti, hanno criticato la sentenza della Corte territoriale, sottolineando la condotta di illecito mantenimento punita proprio dall’articolo 615-ter c.p..

In più, la Corte di Cassazione ricorda che l’affermazione secondo cui non può escludersi che la persona offese avesse “registrato” la password per non doverla riscrivere in occasione di ogni accesso non esclude che il sistema informativo in questione fosse munito di misura di sicurezza a protezione dello ius excludenti. I giudici, inoltre, hanno affermato che “non rileva la circostanza che le chiavi di accesso al sistema informatico protetto siano state comunicate all'autore del reato, in epoca antecedente rispetto all'accesso abusivo, dallo stesso titolare delle credenziali, qualora la condotta incriminata abbia portato ad un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante l'eventuale ambito autorizzatorio”.

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