Il diritto a conoscere le proprie origini contro la volontà del genitore di rimanere anonimo

Da un lato il figlio nato da parto anonimo che pretende di sapere il nome della propria madre biologica, dall'altro lei che intende persistere nel proprio anonimato. Quale prevale?

26 GIU 2017 · Tempo di lettura: min.
Il diritto a conoscere le proprie origini contro la volontà del genitore di rimanere anonimo

La questione in oggetto è profondamente radicata nel nostro ordinamento, trovando riscontro a partire da basi costituzionali con l'art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo in quei contesti ove si svolge la sua personalità.

Fanno parte di questi diritti inviolabili i c.d. diritti della personalità, i quali configurano posizioni soggettive collegati ad un dato individuo in maniera inscindibile e aventi ad oggetto aspetti imprescindibili della persona umana. Proprio a questa categoria appartiene il diritto alla riservatezza, noto ai più con la dicitura "diritto alla privacy", inquadrabile come il mantenimento di uno spazio ideale il cui titolare vanta la libertà di escludere terze parti dal conoscere e diffondere informazioni che lo riguardano.

Il diritto alla privacy trova riscontro anche a livello comunitario con l'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che riconosce il diritto di ogni individuo al rispetto della propria vita privata e familiare, del domicilio e della sua corrispondenza, completando il quadro al II comma, che proibisce l'ingerenza dell'attività pubblica nell'esercizio di tale diritto, facendo salva la tutela di un bene superiore, quale ad esempio la pubblica sicurezza, la prevenzione della salute o la protezione di diritti e libertà altrui.

A livello locale esso è stato consacrato con la Legge 675/96, che istituì la figura del Garante della privacy, e dal più recente D.Lgs. 196/03, altresì noto come Codice di Protezione dei Dati Personali, tutt'ora in vigore. In corrispondenza con il sistema europeo, qualora il diritto in questione si ponga in conflitto con altri, egualmente fondamentali, si rende necessario un bilanciamento; operazione dalle meccaniche non sempre agevoli e immediate.

Emblematica è la circostanza del possibile attrito del diritto alla privacy e il diritto all'identità personale.

Quest'ultimo, di diretta derivazione da un ulteriore diritto della personalità, nello specifico il diritto al nome, si sostanzia nell'interesse del soggetto titolare ad essere identificato in quanto tale, ad essere percepito dall'esterno in maniera fedele a ciò che ritiene di rappresentare in relazione alle proprie caratteristiche, sia interiori che ideologiche e lungi da alterazioni o travisazioni.

Del ventaglio di sfaccettature che il diritto all'identità può assumere fa parte il diritto dell'individuo a conoscere le proprie origini: si nello specifico riferimento alla posizione di colui che, venuto al mondo in seguito a parto anonimo, intenda conoscere il nome della propria madre biologica. Pretesa più che sensata, vista e considerata l'attitudine di una siffatta informazione a far luce su un periodo della propria vita di cui non si possiedono memorie e di trovare risposta all'interrogativo "io chi sono?" che è in un certo qual modo il cuore pulsante del diritto all'identità.

Ma come è possibile armonizzare una pretesa di questo tipo con l'esigenza diametralmente opposta del genitore biologico che, nel pieno legittimo esercizio del proprio diritto alla riservatezza, intenda persistere nel suo intento di rimanere anonimo?

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La procedura per risalire al proprio genitore è disciplinata dalla Legge 149/01, che riconosce al figlio adottivo che abbia raggiunto almeno 25 anni di età il diritto di accedere ad informazioni concernenti i propri genitori biologici, fatte salve le circostanze in cui sussistano gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psicofisica, nel qual caso è possibile procedere anche a prescindere del raggiungimento della soglia di età.

È tuttavia la stessa legge a prevedere che, qualora al momento della nascita la madre abbia fatto espressa richiesta di non essere nominata, l'accesso alle informazioni su di lei non può essere concesso in nessun caso. La legge venne sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale per presunti contrasti con gli artt. 2,3, e 32 Cost. in relazione alla parte in cui non prevedeva di verificare se l'interesse della madre a rimanere anonima fosse ancora vivo a distanza di anni.

La Corte reputarono infondata la questione, basandosi sul principio secondo cui il rispetto del volere della donna che si appresta a partorire è funzionale ad una corretta riuscita dell'operazione: si intendeva cioè non solo assicurare che la donna sul punto di partorire si approcciasse all'operazione con il giusto stato mentale, ma anche dissuaderla dal prendere decisioni ben più drastiche e definitive quali l'interruzione della stessa gravidanza. Questa linea interpretativa perdurò fino al 2012, anno della sentenza Godelli c/ Italia [1] in cui la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo condannò il nostro paese reputando contrario all'omonima convenzione il divieto di conoscere le proprie origini in presenza dell'esercizio del diritto all'anonimato del genitore biologico qualora la normativa interna impedisca una congrua valutazione degli interessi in gioco.

Dello stesso avviso la Corte Costituzionale che nel 2013 mutò orientamento dichiarando la parziale illegittimità costituzionale della norma sopracitata in relazione a due aspetti:

  • l'irreversibilità del segreto: per la normativa fino a quel momento vigente, qualora il genitore biologico esercita il proprio diritto all'anonimato si crea un vincolo indissolubile sia da parte del figlio, sia da parte del genitore stesso, privato ormai di ogni facoltà al riguardo;
  • carenza procedurale: come se il primo aspetto non fosse già eccessivamente perentorio, la totale mancanza di un procedimento volto ad interpellare in via indiretta la madre circa l'intenzione di persistere nel riserbo accentua ulteriormente tale connotato di definitività e proprio su questo punto la Corte pone l'accento, esortando il legislatore a istituire un'apposita procedura volta a verificare la persistenza dell'intenzione del genitore di restare anonimo. [2]

La dottrina si frammentò in seguito a tale pronuncia: una corrente ammetteva la possibilità di attuare tale procedura di interpello applicando principi di diritto già esistenti nell'ordinamento, mentre una differente linea di pensiero reputava che la sentenza della Corte paralizzasse di fatto l'operato dei Giudici chiamati a decidere su casi di questo tipo, fino a che il legislatore non si fosse attivato in tal senso.

Ben più chiara fu la posizione della giurisprudenza, posto che nel 2016 la Cassazione, chiamata a pronunciarsi su un caso analogo, bocciò nettamente la tesi dell'inerzia giudiziaria, riconoscendo il diritto di un figlio a conoscere il nome della madre ormai deceduta [3]. La risposta definitiva al quesito si avrà solo nel 2017, anno in cui la Cassazione a Sezioni Unite puntualizza come la già menzionata sentenza del 2013 ha di fatto ammesso la possibilità per il figlio di interpellare, mediante il Giudice la propria madre biologica al fine di sondarne le intenzioni sul persistere o meno con l'anonimato. E per la Corte, l'inerzia del legislatore non può essere di ostacolo al legittimo esercizio di un diritto da parte di colui che intenda conoscere la propria storia genetica, altrimenti questi si troverebbe nella paradossale situazione di vedere negata la propria pretesa nonostante il precedente intervento della Corte Costituzionale, che invece la reputa legittima.

Pertanto la Cassazione conclude che, fino all'attivarsi del legislatore, le procedure di interpello debbano essere tratte dal quadro normativo esistente, nonché idonee ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità della donna.

Rimane sempre vigente il principio secondo cui "il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorchè la dichiarazione iniziale per l'anonimato non sia rimossa in seguito all'interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità"[4].

[1] Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Sent. 25/9/2012 - Ric. n. 33783/09 - Godelli c/ Italia

[2 ] Corte Cost. sent. n. 278/13 del 22/11/2013

[3] Cass. Civ., sez. I, sent. n° 22838 del 9/11/2016

[4] Cass. Civ., Sez. Un., sent. n° 1946 del 25/01/2017[Avv. Luca Carrescia - Studio Legale]

Scritto da

Avv. Luca Carrescia

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